Materazzi svela per la prima volta cosa accadde la notte della testata. E lo fa in un libro che sembra un romanzo e invece è la sua vita. La storia di uno troppo alto per il calcio (parola di suo padre, allenatore di pallone) e che ha vinto i mondiali. Uno che ama terroni e zingari. uno che non riusciva a parlare di sua madre. Uno che ha la moglie per psicoanalista. Uno che i figli dicono che fa il muratore. Uno che Costacurta gli mise una taglia sulla testa. uno che veste richmond. Uno che chiamano matrix
Non è una storia di parole, in realtà, ma di sguardi.
Le parole ora le sappiamo. Zidane (mentre Materazzi lo tiene per la casacca durante la finale mondiale Italia-Francia): «Te la do dopo la mia maglia». Materazzi: «Preferisco la puttana di tua sorella».
Questa la frase, rimasta misteriosa per un anno malgrado abbiano perfino provato a far decrittare il labiale del giocatore italiano a un gruppo di bambini sordomuti brasiliani, che ha provocato la testata di Zidane e che adesso sta nella prima riga, nell’incipit come dicono i letterati, di Una vita da guerriero, il libro che Marco Materazzi (Matrix per i fan) ha scritto con Roberto De Ponti e Andrea Elefante.
«Preferisco la puttana di tua sorella» (invece della tua maglietta) non sembra una frase da lavare col sangue o da far dire alla mamma di Zidane, come è stato scritto, che avrebbe gradito vedersi recapitare su un piatto i testicoli del prode Matrix. No, non è una storia di parole, ma di sguardi. Dice Materazzi: «Mi diede fastidio il modo in cui Zidane mi scrutò mentre mi parlava». Cioè? «Dalla testa ai piedi. Gli avevo appena chiesto scusa per averlo strattonato. Uno “scusa” che riassumeva un lungo discorso tipo: “Capiscimi, ma non posso farti saltare, prima hai quasi fatto gol. Così ti tengo un po’. Se l’arbitro vede e mi dà rigore contro fa parte del gioco”.
Ma quando mi guardò in quel modo io da terrone o da orgoglioso mi son detto: “Oh, sono anche io a Berlino a far la finale di Coppa del Mondo. Ho segnato anch’io un gol come te. Perché mi devi trattare come se tu fossi in cielo e io sotto terra?”. E allora alla terza volta che me lo ha detto, guardandomi dall’alto in basso, gli ho risposto».
L’immagine bella, più surreale e più divertente dei Mondiali di Marco Materazzi non è quella della testata. È quella di Matrix, in ginocchio, che abbraccia l’arbitro Archundia dopo che Grosso ha segnato il gol con la Germania. Un’immagine inedita nella storia del calcio. «Beh, quella è stata la foto dell’anno, non ho trovato di meglio che abbracciare lui». Un fatto di stanchezza? «Sì, non ce la facevo ad arrivare dall’altra parte del campo». Mentre lei lo abbracciava l’arbitro le diceva di smetterla. «Dai, levati, levati, fermati, mi diceva. Mi alzai e lo riabbracciai. Anche perché i miei compagni erano dall’altra parte del campo e volevo dare loro il tempo di tornare. Infatti, alla ripresa del gioco, ripartì l’ala destra tedesca. Come si chiamava... quello velocissimo... dai...Odonkor! E io urlai a Fabio (Grosso): “Torna, torna”. Ma lui, scioccato dal gol che aveva fatto, veniva su piano piano piano. Odonkor partì come un fulmine. Allora lo inseguimmo io e Ale (Del Piero), per fortuna lui arrivò lungo a fare il cross. Immaginatevi se quelli pareggiavano la partita al centoventesimo minuto. Sarebbe stato da pazzi. Io morivo, a livello di cuore dico».
Con Matrix stiamo sfogliando le bozze appena stampate del suo libro. Penso che questo ragazzone, tutto tatuato, sia stato uno dei segreti principali della vittoria dell’Italia di Lippi e dell’Inter dello scudetto. E penso anche che sono stati ingiusti nei suoi confronti. A partire dalla Fifa, il governo mondiale del calcio, che lo condannò per la testata presa da Zidane, uno strano modo di interpretare giuridicamente (ma anche moralmente e logicamente) i fatti. Matrix (che ha un linguaggio immaginifico simile alla sua maniera di vestire, griffata da uno stilista fantasioso come Richmond) riassume filosoficamente gli eventi mentre sorseggiamo un succo di pompelmo: «Mettiamola così: i Mondiali evidentemente dovevano avere un altro finale con un fascio di luce che illuminava Dio che scendeva a premiare i vincitori (non l’Italia chiaramente). Invece abbiamo vinto noi e a qualche sponsor gli è andata storta». Cose di potere, intrighi blatteriani (da Blatter, discusso capo del calcio mondiale).
Mi permetto anche io di prenderla con filosofia: caro Matrix, lei è lo
sponsor di se stesso e per chi è sponsor di se stesso la vita si è fatta difficile e non solo nel calcio. Ma adesso finalmente questo libro racconta la sua ruggente avventura di guerriero del calcio. Ed è una bellissima storia di sport e di vita. I Mondiali lei li aveva già vinti, prima che a Berlino, nei campi di calcio del Sud, quando giocava col Marsala. «La volta più bella fu a Rosarno. Loro per salvarsi dovevano vincere. Avevano cancellato il dischetto del rigore regolare e ne avevano fatto un altro a sei metri e non a undici dalla porta. Lo dissi all’arbitro. E lui: “Se non fate riserva scritta, non posso farci niente”. Allora cancellai col piede il dischetto fasullo, così che in caso di rigore l’arbitro avrebbe dovuto contare per forza i passi per segnare la distanza giusta. Mi capitò di tirare da fuori area. Sfiorai il palo. Scevola, il loro stopper, me lo ricordo ancora come si chiamava, mi affrontò. Gli dissi: “Stai tranquillo che non faccio mai gol io”. Manco a farlo apposta mi ricapita di tirare da lontano, mi viene fuori un tiro bomba. Miracolo del portiere. Scevola mi prese qui al fianco, ebbi il livido per sei settimane. Chiamai l’arbitro: “Guardi”. E lui: “Gioca, gioca”. Appena l’arbitro si girò, lo stopper mi sputò. L’arbitro lo sentì. Tutt’e due espulsi. Corsi verso gli spogliatoi e sentii un compagno che mi urlava: “Attento!”. Come entrai, Scevola mi diede un calcio da karatè. Feci la doccia con la scorta dei carabinieri, arrivati nel frattempo. Meno male, se no mi ammazzava». Come finì la partita? «Perdemmo. E, usciti dallo stadio, ci rubarono le borse, ci ruppero il pullman... Fu un’esperienza bella, molto significativa, ci aiutò a crescere».
Sinisa, Deki, Ibra e LuÍs
Lei è amicissimo, nell’Inter, di gentaglia tipo Sinisa, Deki, Ibra. «Gentaglia?». Lo dico in senso buono: Sinisa, cioè Mihajlovic, Deki, cioè Dejan Stankovic, e Ibra, cioè Zlatan Ibrahimovic, sono i miei idoli calcistici (e forse, ormai, anche extracalcistici). «Allora va benissimo, capisco lo spirito con cui lo dice. Sì, siamo gentaglia, il primo io. Gente scaltra però buona. Sinisa è lo zingaro per eccellenza perché è un uomo vero». Questo elogio dello zingaro mi piace. Mi parli di questa tribù. C’è dunque Sinisa... «Che è il fratello maggiore, uno diretto. Quando si affeziona a una persona guai a chi la tocca». Poi c’è Stankovic, un duro dal cuore d’oro, l’ho visto piangere come una fontana in campo perché un compagno che non segnava da mesi aveva finalmente fatto gol. «Dejan è mio fratello, guardi». Mi mostra i braccialetti al polso. C’è una bandiera italiana e una bandiera serba e il numero 5 (che è il numero del serbo Stankovic). Capisco che quel braccialetto è un simbolo di fratellanza, un giuramento di sangue. «Dejan dedica tutto se stesso alla famiglia e a chi gli è veramente amico. Ha un carattere istintivo, uguale al mio. Ci aiutiamo a vicenda. Se in campo sbrocco io arriva lui, se sbrocca lui arrivo io. Dejan è uno che non tradisce mai».
Del vostro gruppo fa parte anche Luís Figo? «Certo». Figo mi sembra un uomo di classe immensa, ha tratti di pura regalità. «Non si sbaglia e sappia che la classe che ha in campo ce l’ha anche nella vita. Ed è un campione anche per quello. Luìs è una persona umile, vera. Fa con classe anche i falli».
Scusi la nota malinconica, ma il calcio è anche malinconia, giovinezza che finisce presto, lei ci pensa mai a quando smetterà di giocare? Sarà un momentaccio, un vuoto enorme, senza più gli zingari, senza più gli Odonkor da inseguire... «Chi vive male la fine della carriera è chi si è fatto troppo coinvolgere dalla parte finta del nostro mondo. Quella delle veline, quel circo lì. Credo che per me non sarà così: io sono Marco e alla fine
cercherò di restare Marco».
I figli e la luce riflessa
Mi racconti (infortuni a parte) la sua giornata tipo. «Mi sveglio alle 7 e un quarto, chiaramente lascio dormire mia moglie e porto i bimbi a scuola, vado a fare allenamento, poi vado a riprenderli». A che ora è l’allenamento? «Dieci e mezza, 11. Ma io alla Pinetina arrivo verso le nove, nove e mezza. A quell’ora siamo in pochi. Io, Sinisa, quelli che portano i bambini a scuola. Poi alle quattro vado a riprenderli e iniziano le loro attività sportive. Ma lì preferisco che li accompagni mia moglie». Perché? «Non mi piace che i miei figli vivano di luce riflessa. Non tanto loro quanto la gente che li circonda. Ad esempio, mia moglie va in un villaggio turistico tutti gli anni e registra i figli a nome suo. A mio figlio grande quando gli chiedono che lavoro fa suo padre dice: il muratore, il tassista».
Mi sembra, letto il libro, che sua moglie sia un po’ la sua psicoanalista. «Daniela è un po’ la mia coscienza. Cerca di farmi tirare fuori tutto della mia infanzia, cose che nemmeno io conosco». Grazie a sua moglie lei ha rimosso un blocco, ha rotto un silenzio lunghissimo legato alla morte di sua madre quando lei era ragazzino. «Fino a poco tempo fa quando parlavo di mia madre mi veniva il magone, tuttora se ne parlo molto finisco per piangere. Ma già il fatto che riesco a parlarne vuol dire che in me qualcosa è cambiato».
Qualcosa è cambiato anche in un altro senso. Mi riferisco al suo primo incontro con Daniela, come è raccontato nel libro. Mi lasci dire ma lei nell’occasione appare, come direbbe il suo amico e figlioccio Ringhio Gattuso, un tamarro terribile. Capelli scolpiti ai lati col rasoio, sembra l’ultimo mohicano. «È vero, ero quello che definiscono...» Uno zarro? «Sì, zarro andrebbe bene, ma direi meglio che ero quello che definiscono Il Giocatore. Avevo 22 anni. Ero ancora un ragazzo di C1, di quelli che vogliono apparire pur non essendo nessuno e avendo mezza lira in tasca». Permetta che le rinfreschi la memoria leggendo il passo incriminato: «la prima volta che ci siamo visti al bar dove lavorava, ci provai subito, con la presunzione di chi si crede chissà chi. Avevo i capelli rasati sui lati, mi vestivo firmato, facevo un po’ lo spaccone, ostentavo». È così Il Giocatore?
«Sì, preciso, e in più ero tutto firmato dalla giacca ai calzini». (Su quella prima volta interviene Daniela Materazzi, parte in causa: «Lo scambio dei numeri di telefono è andato così. Lui mi fa: “Ce l’hai la penna?”. Io: “No, non ce l’ho”. “Ce l’ho io”, fa lui e tac apre la giacca per prenderla dalla tasca interna e mi sbatte sul muso, sbam!, l’etichetta Dolce&Gabbana. Capisce? Mi voleva far vedere che la giacca era firmata»).
Su di lei, Matrix, circola una leggenda metropolitana: che una volta lei stava passando per strada a Milano con moglie e figli e un ragazzino, milanista, da un ultimo piano le urlò «Materazzi pezzo di merda» o qualcosa del genere coro da stadio e lei... «Non è una leggenda, è un fatto vero, successo in via Solferino, all’incrocio con via Marsala. Il ragazzino andai a cercarlo. Per sfortuna sua, una persona stava entrando nel palazzo e così mi intrufolai. Suonai alla porta del ragazzino. All’inizio non volevano aprirmi. Quando lo fecero, la madre massacrò il figlio con lo sguardo. Il ragazzino scrisse poi una lettera alla Gazzetta, scrisse che aveva sbagliato e che avevo mostrato molta intelligenza nel rimproverarlo. Mi venne d’istinto di fare così. Non era una reazione tipo “adesso vado a buttarlo giù dal terrazzo”, ma tipo: “e adesso dimmelo in faccia quello che hai detto nascosto sul balcone”. Mi piacque molto la reazione del ragazzino. Mi fece morire la faccia della madre».
Il gol più bello
Nel libro lei racconta di quando a Perugia giocava la sua prima stagione in serie A e arrivò il Milan. Vinceste 1-0 e Billy Costacurta, uno dei simboli rossoneri, le disse: «Sappi che ho un sacco di amici nelle altre squadre. Metterò una taglia sulla tua testa». «Quella cosa mi fece male, tornai negli spogliatoi piangendo e possono testimoniarlo i massaggiatori del Perugia. La settimana dopo mi capitò di marcare Lentini perché era uno dei più alti e più bravi di testa. Ci si teneva, è normale, ci si strattonava. Lentini mi disse a mezza bocca: “Allora avevano ragione”. Verso fine partita feci un intervento e lui, non so se fortuitamente o volontariamente, arrivò con tutta la foga e mi aprì il sopracciglio. Vidi il sangue... Se fai uno più uno: Lentini ha giocato nel Milan, quello mi dice metto una taglia sulla tua testa, ho degli amici, ne ho tanti. Poi l’anno dopo se Lentini con me si fa male... Io non venivo dal Real Madrid, io venivo da Marsala, avevo giocato a Rosarno, se nessuno mi fa giustizia alla fine me la faccio da solo. Costacurta lo rincontrai a Milano, quando passai all’Inter, volevo inserirmi in quell’ambiente nuovo, il calcio milanese, molto preciso e signorile. Cercai di instaurare con Costacurta un rapporto da collega. Lo vidi in via in via Manzoni con le stampelle, si era appena operato al ginocchio, lo salutai da lontano: “Come stai?”. così, per sdrammatizzare. Non è servito a niente. Posso fare un paragone giornalistico per spiegarmi?». Prego. «Ecco, Costacurta si sente uno da Sole 24 ore, da Corriere della Sera. Diciamo che non è uno da Giornale di Sicilia come sono io, e lo dico con orgoglio. Lui trova modo ogni volta nelle interviste di pizzicarmi: che sono un antipatico, che sono un rompipalle. Però in faccia non me l’ha mai detto e probabilmente non me lo dirà mai. Vuol sempre apparire come il Signorino, però anche lui in campo dice cose brutte. Lui che fa il prete e non lo è». Il bello di questa vicenda è che lei è campione del mondo e Billy no. «Lui è vice-campione del mondo, va detto, è arrivato un attimino corto».
Ci sarebbero da raccontare tante cose di Matrix. Di quando suo padre
(allenatore) gli disse di darsi al basket perché era troppo alto per il pallone. Di quando giocò in Inghilterra. Di quando un 5 maggio (napoleonico quanto mai) perse con l’Inter uno scudetto già vinto, di quando spaccò la faccia a Cirillo nel sottopassaggio di San Siro, di quando segnò in rovesciata al Messina il gol più bello del campionato scorso della serie A (dopo aver preso una sberla poco prima dall’allenatore del Messina, Bruno Giordano: le storie di Matrix sono sempre complicatissime). Tutte cose scritte nel ferratissimo libro di De Ponti ed Elefante e che aspettano solo d’essere lette. Vorrei chiudere, da devoto manciniano (nel senso del mister interista), chiedendo a Materazzi del Mancio. Dice Matrix: «Se ho fatto quello che ho fatto negli ultimi due anni il merito è anche di Mancini». Però con Mancini all’inizio avevate un rapporto complicato. «Complicato perché...». Lui è un timido? «È molto timido». Credo che lui si comporti in maniera sprezzante per timidezza. «Ecco, bravo, non capisci mai dove arriva la timidezza e dove comincia tutto quello che ognuno di noi ha. Parlo di sentimenti come la vanità, l’orgoglio, la presunzione, la permalosità... È come quando mia moglie mi dice: “Perché non fai così?” E io: “Perché sono timido”. Lei: “Ma così passi per un ignorante”. Ecco a me capita quotidianamente di passare per ignorante».
Antonio D’Orrico
30 agosto 2007
Tratto da il corriere della sera